Atleti al tuo fianco: Dott. Piero Mandelli

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La ricerca di un momento di riflessione profondo sulla vita delle persone che ogni giorno combattono il cancro è l’obiettivo dichiarato di “Atleti al tuo fianco”. Guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato Arenbì Onlus, questo progetto coinvolge atleti della storia dello sport italiano in dialoghi incentrati sulle emozioni, che grazie alla metafora sportiva, si trasferiscono dall’agonismo all’oncologia. Entra a fare parte della squadra di Atleti al tuo fianco il dott. Piero Mandelli, ex giocatore di basket di serie A1, oggi medico all’ospedale Humanitas Gradenigo di Torino.

Ciao Piero, benvenuto nel progetto Atleti al tuo fianco. Questa iniziativa nasce per aiutare a comprendere le emozioni di chi si trova a vivere con una diagnosi di cancro, attraverso i racconti, le metafore e i racconti dello sport. Per la prima volta coinvolgiamo un testimonial sportivo che nella sua vita sia poi diventato medico: la tua intervista sarà quindi speciale non solo per l’unicità della tua e di ogni persona, ma anche per affidarti parte della componente medica del nostro tema che avvicina oncologia e sport. Per iniziare, raccontaci chi sei, la tua storia sportiva e il tuo percorso medico. Cinque domande, la prima è introduttiva perché offre la possibilità di presentarti: raccontaci chi sei, il tuo percorso sportivo e il tuo percorso medico, soprattutto nella fase di emergenza coronavirus.

Sono nato a Torino nel 1958, ho giocato a basket in serie A per 13 anni. 6 anni a Torino e 7 a Firenze fra la A1 e la A2. Per tre volte siano arrivati terzi in campionato perdendo la semifinale dei playoff contro la squadra che avrebbe poi vinto lo scudetto. Nel 1984 ho vinto i campionati mondiali militari. Ho studiato medicina durante la carriera sportiva, ma ho sostenuto gli ultimi esami dopo aver smesso di giocare e mi sono laureato nel 1995. Dal 1996 lavoro come medico di pronto soccorso presso l’ospedale Humanitas Gradenigo di Torino. Durante l’emergenza coronavirus ho dovuto sostituire il responsabile del pronto soccorso per circa un mese coordinando le attività di pronto soccorso e di reparto infettivologico.

Introduciamo un primo aspetto della vita con un tumore: i cicli di terapia a distanza, intramezzati da periodi di riposo. Non sempre però i giorni di pausa fra un ciclo e l’altro sono facili: effetti collaterali, stanchezza e emozioni da gestire nell’avvicinamento al nuovo ciclo influiscono sulla serenità nell’approccio al nuovo appuntamento. Tu hai vissuto la gestione del pronto soccorso nell’emergenza covid: quanto ti è servito esserti formato in uno sport come il basket in cui non vi è pausa fra le fasi di attacco e difesa, e anche nel riposo in panchina se chiamati in campo ci si deve far trovare immediatamente pronti?

Ho sempre pensato che lo sport fosse una scuola di vita per tantissimi aspetti e ne ho avuto conferma durante la mia vita lavorativa. Sono tanti gli aspetti da cui si può trarre insegnamento.
Il lavoro di squadra dove ognuno deve portare il suo contributo, non necessariamente dello stesso peso, ma comunque indispensabile: pensiamo nello sport ai grandi realizzatori che sono alla ribalta ma che hanno bisogno di chi fa il lavoro oscuro in difesa. Questo consente di sentirsi fieri del proprio lavoro quando viene fatto con coscienza e con il massimo impegno. La necessità di allenarsi per ottenere i risultati, stare in panchina in modo propositivo osservando attentamente quello che succede e analizzarlo in modo da essere pronti quando chiamati, l’importanza del rapporto con i compagni dei quali bisogna capire cosa possono dare e di cosa hanno bisogno. Sono tutte cose facilmente trasferibili in ambito lavorativo, dove la struttura assomiglia molto a quella di una squadra. Anche la pause fra una partita e l’altra sono momenti in cui è possibile pensare a un giusto momento di svago senza dimenticare l’obiettivo da raggiungere.

Il concetto di time out nel basket alcune volte serve per prendere una pausa ossigenante all’interno di una dinamica coinvolgente in maniera dannosa, che fa perdere lucidità. È importante aiutare le famiglie che affrontano un tumore a mantenere quando possibile dei momenti di svago della mente, di attività personale piacevole, per ricaricarsi con boccate di rilassamento e lucidità. Oggi nel tuo lavoro, ti capita mai di vivere situazioni in cui ti chiami un time-out anche di pochi minuti per ripartire con più determinazione? E in che modo, eventualmente, lo sviluppi?

Purtroppo il lavoro in pronto soccorso non si adatta facilmente al concetto di time-out, che può essere richiesto quando si è in difficoltà. Come si può immaginare ci sono situazioni che non possono essere “sospese” e vanno affrontate quando si presentano. Bisogna quindi cercare di rifiatare quando se ne ha la possibilità. Nello sport il time-out ha molti scopi: riposare, interrompere una serie positiva degli avversari, introdurre modifiche dal punto di vista tecnico, anche solo guardarsi negli occhi per trovare motivazioni. Penso che per un malato sia importante concedersi dei momenti di time-out per applicare tutti i concetti appena espressi al fine di trovare la forza di riprendere il percorso. In ambito medico una sorta di time-out può essere la richiesta di collaborazione da parte di un collega nei momenti di difficoltà, da cui deriva il concetto di non sentirsi mai sminuiti se si chiede aiuto a qualcun altro.

Una persona in percorso oncologico impara a conoscere i vari ruoli disciplinari che ritrova intorno a sé nell’equipe sanitaria. Non è immediato sentirsi a proprio agio con tanti professionisti che da estranei diventano nomi e figure di frequentazione assidua, ma è importante lavorare sul rapporto umano oltre che professionale proprio per aiutare la relazione a migliorare il rapporto di fiducia e la relativa stabilità emotiva nell’incontro. Quanto il lavoro dell’integrazione dei diversi ruoli e personalità in una squadra di pallacanestro ti aiuta oggi a vivere un lavoro come il medico ospedaliero, in costante relazione con persone dell’equipe multidisciplinare dai diversi indispensabili compiti e dalla varia personalità?

Mi riallaccio alle considerazione precedenti. Un team sportivo è costituito da molteplici figure professionali. Dal presidente ai dirigenti, all’allenatore con il suo staff, ai medici e massaggiatori e infine ai giocatori, dai più forti fino ai giovani delle squadre giovanili. Tutti collaborano attivamente. L’esperienza covid in questo senso è stata molto formativa perché all’interno della nostra struttura, e penso anche in tutte le altre, è stato possibile apprezzare come questa collaborazione si sia realizzata compiutamente, dimenticando le posizioni spesso spiacevoli in cui si trova da una parte il datore di lavoro e dall’altra i lavoratori. Come responsabile mi sono sforzato di individuare in ciascun elemento le caratteristiche peculiari prima di decidere quale ruolo assegnare al fine di ottenere il massimo risultato possibile. Nell’ambito di un team oncologico si verifica esattamente la stessa situazione. Ognuno ha la possibilità di fornire il massimo contributo in funzione della propria mansione.

Nelle insicurezze di una diagnosi di cancro, la mente delle persone tende ad aggrapparsi a convinzioni non sempre legate alla realtà: è fondamentale poggiare il proprio pensiero, le proprie emozioni e le proprie conclusioni su dati reali, perché ci sia una costante sintonia tra ciò che è vero e ciò che si prova. Nel basket, si parla di tiro forzato quando un cestista esegue una conclusione non ottimale, in cui la squadra non ha pianificato movimenti di uomini e di palla per creare la condizione migliore di tiro, alcune volte in cui il singolo stesso ha predeterminato nella sua testa il desiderio di fare canestro senza leggere le opportunità alternative. Quanto è difficile per te medico non ricorrere a conclusioni affrettate ma continuare ad approfondire anche quando ti sembra che il quadro clinico inizi ad essere coerente per una diagnosi definitiva?

Questo è un ambito che si discosta molto dall’attività sportiva. Nello sport spesso le decisioni sono influenzate dallo stato emotivo, dalla convinzione di riuscire o non riuscire a fare una determinata cosa. Per cui si può decidere di forzare un tiro oppure di passare la palla. Per mia esperienza personale posso affermare che la convinzione di riuscire a realizzare un determinato atto lo rende statisticamente molto più attuabile. In medicina non si può fare qualcosa solo perché ci si sente “in forma” perché gli errori sono concessi solo in minima parte e hanno conseguenze ben più gravi. Per questo bisogna essere molto razionali e applicare procedure con cognizione di causa solo quando si è certi che sia la soluzione migliore per il paziente. Questo non significa che in situazioni di emergenza si debba restare inerti quando si potrebbe tentare qualcosa. È come quando si ha la palla in mano e il tempo sta per scadere e allora si deve comunque tirare. Per quanto riguarda l’ultima considerazione è forse una delle cose più difficili da controllare. Sappiamo tutti che se sentiamo rumore di zoccoli è probabilmente un cavallo e non una zebra fuggita dallo zoo, ma se ci sbagliamo, in medicina, le conseguenze possono essere devastanti. Soprattutto perché con i tempi ristretti del pronto soccorso una diagnosi fatta consente di passare ad altri casi. Questa è forse una delle parti più irrazionali del nostro lavoro. Come difendersi? Ascoltando e accettando i consigli e le considerazioni delle altre persone. Spesso veniamo salvati dal contributo di un altro medico o di un infermiere, a volte anche dalle considerazioni di un familiare. Mai, a mio avviso, restare arroccati nelle proprie posizioni per timore di essere screditati. Purtroppo in un lavoro tempo dipendente è molto difficile istituire dei sistemi di sicurezza per contrastare eventi avversi rarissimi, perché costerebbe troppo tempo e porterebbe discapito alla cura degli altri pazienti.

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