Atleti al tuo fianco: Giacomo Carini

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Combattere un tumore e praticare lo sport ad alti livelli possono avere punti di connessione? La ricerca di un momento di riflessione profonda sulla vita e sulle difficoltà incontrate dalle persone che ogni giorno combattono la loro lotta contro il cancro è stato fin dalla sua origine l’obiettivo dichiarato del progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Attraverso la metafora dello sport, veniamo guidati per cogliere sfumature della quotidianità delle persone che combattono il cancro. Entra a far parte della famiglia di “Atleti al tuo fianco” Giacomo Carini, nuotatore italiano, medaglia d’argento nei 200m farfalla ai Giochi Europei di Baku 2015.

Ciao Giacomo, benvenuto nella squadra di Atleti al tuo fianco, dove il nuoto diventa spunto per raccontare la vita quotidiana delle persone che affrontano un tumore. Per cominciare, spogliati della veste di sportivo e scegli cosa raccontarci di te per presentarti: dicci qualcosa che non conosciamo della tua quotidianità al di fuori della vasca.

Mi chiamo Giacomo Carini, sono un ragazzo solare, che ama la compagnia degli amici e la ricerca della serenità in ogni attimo libero al di fuori della vasca. Il nuoto è la mia professione, ma mi definirei un amante dello sport a tutto tondo. Per questo motivo, quando ne ho la possibilità, mi piace cimentarmi anche in altre discipline. Un capitolo importante della mia vita riguarda poi lo studio, che con i giusti sacrifici sto cercando di portare avanti parallelamente al lavoro: frequento Management Internazionale presso la Cattolica a Piacenza e, se guardo al mio futuro, ritengo che la fatica di oggi nel conciliare queste due dimensioni della mia vita quotidiana verrà ripagata.

Introduciamo adesso il concetto di “tempo di reazione”. Quando una persona riceve una diagnosi di cancro spesso viene spronata da chi ha accanto a reagire in maniera decisa, quasi dovesse comportarsi da guerriero contro la malattia. Questo comportamento però non è per forza il più consono per tutti in egual misura: per alcuni la giusta via può essere quella dell’accettazione, della neutralità, della pacificazione. Ogni persona ha i suoi tempi e i suoi modi di reagire, vanno rispettati. Nel nuoto il tempo di reazione entra in gioco al momento del Via: in che modo si comanda quell’istante sotto il profilo tecnico? E cosa passa nella tua mente in quel momento di silenzio che separa il “niente” dal ”tutto” nella tua disciplina?

Dal punto di vista tecnico va detto che il tempo di reazione di ogni atleta dipende in gran misura da alcune variabili che sono molto fisiche: ha a che fare con i muscoli, con i riflessi. Per quanto riguarda invece il momento di silenzio che precede l’inizio della competizione, ritengo che spesso non si dedichi l’attenzione giusta a questo frangente della gara. È un passaggio delicatissimo e durante quel breve intervallo, che può durare meno di un secondo, paradossalmente riesco a passare in rassegna a tutta la mia preparazione, il mio allenamento e la mia condizione attuale: in quell’attimo di raccoglimento, riesco a capire se davvero sono pronto ad affrontare la sfida che mi trovo davanti.

In un percorso di cura in ambito oncologico, un momento molto delicato è rappresentato dalla visita di controllo. Tali visite si susseguono ciclicamente e danno il responso riguardo all’andamento delle terapie; talvolta però l’esito di questi esami può essere deludente rispetto alle aspettative del paziente. La tentazione della persona interessata può essere di lasciarsi andare, o addirittura rinunciare a proseguire le cure, che vengono in quel momento soggettivamente vissute come inutili. Un atleta come te allena lungo tutto l’anno determinati movimenti e azioni che dovrà ripetere nel corso di una gara, che può però anche avere un esito deludente. A quel punto lo sportivo è costretto a riprendere con gli allenamenti in vista della competizione successiva senza lasciarsi rallentare dalla negatività portata dalla sconfitta. Hai mai vissuto una situazione del genere?

Sì, mi è capitato più volte di vivere situazioni di questo tipo, e non è detto che sia una cosa esclusivamente negativa: ho sempre concepito lo sport come una rappresentazione della vita, penso che allenare determinate qualità, come la pazienza, la tenacia, la perseveranza, in ambito sportivo possa portare i suoi frutti. I benefici possono poi concretizzarsi anche al di fuori dell’ambito agonistico, nella vita di tutti i giorni. In particolare ho scolpita nella mente la delusione che provai in seguito alla mia esclusione dalle Olimpiadi di Rio: era l’obiettivo per cui avevo lavorato tutto l’anno e lo mancai a causa di qualche decimo di secondo di troppo sul mio tempo. In quell’occasione però trovai in me una forza di reagire che non pensavo neanche di avere, convertendo la mia amarezza in positività e voglia di lavorare ancora più duramente in vista del successivo appuntamento: i Campionati Italiani. Quella competizione mi vide poi stabilire il mio primo record italiano e, cosa più considerevole, mostrò a me e agli altri il mio valore come sportivo, insegnandomi l’importanza del lavoro e della perseveranza.

Un tumore molto spesso diventa un intruso angosciante, oltre che nel corpo, anche nella mente della persona malata. Il cancro tende a isolare e deprimere il paziente, convertendo talvolta queste percezioni mentali in veri e propri sintomi fisici: si possono così avere tremore, attacchi di panico, insonnia. Da sportivo, come impedisci che la tensione pre-gara si impossessi di te al punto da bloccare i tuoi movimenti e impedirti di esprimerti al meglio?

Questa dimensione legata alla tensione e all’ansia da prestazione si è resa più presente da quando sono arrivati i primi record e risultati importanti: fino a un minuto prima di emergere non devi dimostrare niente a nessuno, dopo i primi successi la situazione cambia drasticamente. Nel mio caso specifico devo dire che per il controllo della tensione pre-gara c’è sempre stata una passione enorme per quello che facevo e una voglia incredibile di dimostrare il mio valore. In questo senso, l’entusiasmo è sempre stato più forte della paura. È poi necessario citare, all’interno di questo processo, tutte le persone che mi sono state vicine: lo staff, l’allenatore, i miei genitori solo per citarne alcuni, che mi hanno trasmesso un insegnamento fondamentale: “se ci sei riuscito una volta, non vedo perché non ci dovresti riuscire di nuovo”. Questo rimane per me un cardine su cui poggiare il controllo della mia tensione pre-gara.

Nel portare avanti un percorso di cura, una persona si trova spesso a convivere con momenti di silenzio. Quando si esegue un’infusione o quando si sta sdraiati senza dormire, si ha la possibilità di riflettere, di parlare con se stessi. Questo è un dialogo riflessivo importante, perché crea una relazione con un punto profondo della propria personalità. Tu fai uno sport individuale, in cui peraltro sei anche isolato dai rumori che provengono dall’esterno. Ti capita mai, durante la tua attività sportiva, di parlare con te stesso?

Sì, devo dire che questo dialogo interiore lo sperimento spesso, in particolare durante gli allenamenti. Alcune sessioni di lavoro sono infatti molto ripetitive, oltre ad essere fisicamente molto faticose; in questi casi il parlare a me stesso assume un ruolo in un certo senso motivazionale, in quanto mi sprona a dare il massimo e mi invita a non cedere, ripetendomi frasi come “sei ormai quasi a metà”, “hai superato la metà”, “queste sono le ultime ripetute”. Nelle lunghe distanze, la nostra mente ha bisogno di separare in frazioni una fatica duratura: vederla suddivisa in porzioni ripetibili aiuta ad affrontare il tempo necessario con minore angoscia. Può sembrare stupido da dire, ma penso che il nostro dialogo interiore possa esserci molto utile e talvolta è necessario per ricordarci e rinverdire le nostre motivazioni.

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