Atleti al tuo fianco: Giacomo Sintini

La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psiconcologia. Entra a far parte di questa squadra Giacomo Sintini, ex pallavolista, due volte campione d’Italia con le maglie di Macerata e di Trento e campione d’Europa con la Nazionale Italiana, che nel 2011 ha affrontato e sconfitto un Linfoma non Hodgkin.

Ciao Giacomo, benvenuto nel progetto Atleti al tuo fianco. La tua storia personale e la tua carriera sportiva ci offriranno la possibilità di riflettere sulle difficoltà quotidiane che si incontrano mentre si combatte contro il cancro. Per iniziare, raccontaci di cosa è composta la tua quotidianità odierna, adesso che hai concluso la tua carriera sui campi di pallavolo.

Ciao a tutti, sono molto felice di partecipare a questo progetto. Partiamo dall’oggi: sono un manager di una multinazionale olandese che si occupa della gestione delle risorse umane, io lavoro nell’ambito della formazione. Non è tanto lontano dal mondo che frequentavo prima, perché la formazione di cui mi occupo riguarda la metafora dello sport: io oggi costruisco progetti che utilizzano lo sport riletto in chiave organizzativa, mi rapporto con coach, con psicologi sportivi, con atleti che possono essere testimonial, con i quali portiamo delle esperienze per fare formazione ai manager aziendali. Allo stesso tempo porto avanti l’Associazione Giacomo Sintini, nata dopo la mia esperienza con il cancro, insieme con le persone che lavorano con me e che mi aiutano a concretizzare i nostri progetti, per essere sempre di più un riferimento importante nella comunità dei tumori. Ma forse, prima di tutto questo, sono un papà e un marito, che è la cosa più importante, anche se l’ho detta per ultima; cerco di provvedere alla mia famiglia nel migliore dei modi, e di essere, insieme con mia moglie, gli artefici del nostro futuro. Nostra figlia Carolina sta crescendo, ha dieci anni, cerchiamo di starle vicini nei suoi impegni sportivi; abbiamo un cane che si chiama Ginevra e due gatti, cerchiamo di vivere il tempo libero insieme, con gli amici, conducendo una vita abbastanza semplice.

Questo ritratto ci dà modo di conoscerti sotto aspetti che, seguendoti solo come atleta, è più difficile sapere. Hai usato questa espressione: “dopo la mia esperienza con il cancro”: raccontaci quello che ritieni più giusto che noi sappiamo della tua storia personale contro il tumore.

Il 2011 è stato sicuramente un anno di svolta nella mia vita: l’incontro con il tumore è stato un fulmine a ciel sereno. Io ero, in assoluto, nella fase migliore della mia carriera: avevo 32 anni, ero nel giro della Nazionale, giocavo in Russia come straniero in un club importante che mirava a vincere la Champions League. Avevo appena aperto il mio mercato estero e disponevo già di una nuova proposta per giocare in Polonia la stagione successiva. Mia moglie aveva 28 anni e si stava laureando, Carolina aveva 3 anni, avevamo molti progetti e quindi era un periodo della vita molto pieno. Purtroppo la diagnosi di “Linfoma non Hodgkin diffuso, alto grado di malignità, quarto stadio” è arrivata e ci ha completamente catapultato in una realtà differente, sconosciuta, spaventosa che era quella della malattia, dell’ospedale, dei mille controlli. È stato un momento molto difficile, mi ha spiazzato, mi ha messo in difficoltà, mi ha sconfitto all’inizio, mi ha messo in ginocchio e io ho cercato poi di guardarmi intorno, di cercare le persone che potessero aiutarmi. Ho cercato di fare squadra con chi fosse intorno a me, con gli infermieri e i medici, la mia famiglia, i miei amici, le persone che mi vogliono bene. Ho cercato di essere disciplinato nelle cure come ho fatto sempre per preparare i grandi impegni dello sport e ho cercato di studiare il mio avversario, come mi ha insegnato a fare la pallavolo prima dei grandi eventi. Ho messo in campo tutto quello che poteva dipendere da me, ma sono anche stato fortunato, e i medici che mi hanno curato hanno fatto un lavoro eccelso. Io credo in Dio, quindi credo che in qualche modo mi abbia dato una mano a rimanere qua. Nonostante il tumore, la chemioterapia ed il trapianto di midollo osseo mi avessero provato così tanto, il mio fisico ha retto il colpo ed io sono tornato piano piano ad una vita sana. Una volta arrivato a questo traguardo, ho anche cercato di riprendere una vita di alto livello sportivo e, in qualche modo, ce l’ho fatta.

Parlare poco di come si possa vivere ed affrontare un tumore sotto il profilo emotivo, fa sì che vengano tramandati dei preconcetti che non corrispondono alla reale verità. Uno di questi, quando si parla ad una famiglia, è che il parente dica “devo essere forte per lui”, che il paziente dica “devo essere forte, sennò mio marito crolla, mia moglie crolla”. Al contrario, è importante dare modo alle persone di essere forti scoprendo la propria debolezza, cioè avendo anche il coraggio di dire “oggi è un giorno in cui sono a zero sotto ogni profilo, energetico, motivazionale; oggi te lo scarico addosso perché domani, può essere che tu ti senta così, ed io possa sentirmi pronto per accogliere le tue difficoltà e arrivare ad un obiettivo insieme”. Nella tua storia sportiva, hai scritto una pagina incancellabile per la pallavolo italiana, vincendo il primo scudetto a Macerata; avevate un opposto straordinario, Ivan Miljnkovic, che quell’anno mise a terra qualsiasi pallone potesse venirgli servito. Quanto è stato importante per te, sia nella tua vita sportiva in quel raggiungimento dello scudetto, sia nella tua battaglia contro il cancro, poter contare intorno a te su qualcuno che in determinati momenti “ci avrebbe pensato lui”?

Tantissimo. Le squadre che funzionano hanno sempre dei ruoli ben definiti e c’è sempre qualcuno in grado di prendersi la responsabilità in momenti determinanti. Io penso che in un gruppo vincente ci sia sempre più di un leader, ed ognuno deve essere un leader in quello che gli compete fare nel suo ruolo. Quando hai un fuoriclasse come Ivan Miljnkovic, quando hai un medico che sa il fatto suo, quando hai un papà, una mamma che comunque ti fanno vedere che sono lucidi nelle decisioni, un fratello maggiore che sa consigliarti, è fondamentale per avere la lucidità di capire che non si può fare tutto da soli. In certi momenti non bisogna per forza fare la giocata della vita, non bisogna per forza rischiare il tutto per tutto. Per dirla in un linguaggio proprio sportivo, in certe situazioni la palla deve andare là, non ci sono santi, non conta che la cosa sia prevedibile, che tutti se lo aspettino. È proprio perché tutti se lo aspettano che è giusto che la palla vada là. Io penso che questa sia stata una delle più importanti mie caratteristiche come palleggiatore. Io non avevo un talento così cristallino come avevano tanti altri, io non avevo la capacità di fare cose eccezionali, di nascondere la palla, però io ero molto lucido nei momenti decisivi delle partite e non ho mai avuto quella presunzione di voler per forza chiudere io, di fare la giocata che sembrasse storica. In quei momenti cercavo di essere molto pragmatico e molto efficace.

In oncologia, è importante togliere ai pazienti il senso di responsabilità del dover guarire. Il paziente ha diritto di non guarire, questa è una cosa che si dice raramente esattamente così. È fondamentale trasmettere che guarire non è un obbligo, guarire è un obiettivo: è una cosa molto diversa. Mantenere distinte queste sfumature è fondamentale per non far subentrare il senso di colpa in un momento in cui, magari, ci può essere un passo indietro o una messa in discussione della guarigione. Nel 2005, con la Nazionale italiana tu hai vinto il campionato europeo, giocato in casa. La pallavolo italiana aveva un ottimo presente e uno straordinario recente passato, che portava alla sensazione che la vittoria di un trofeo fosse una situazione attesa e logica, ancor più in un’occasione come l’Europeo in casa. Durante quell’Europeo, hai mai vissuto la sensazione che fosse per voi un dovere arrivare primi? E nel tuo percorso di malattia, ti sei mai sentito in obbligo di guarire?

Mi piace molto questa riflessione, la condivido anche per quanto riguarda il punto di vista sportivo. Io penso che abbiamo vinto quell’Europeo proprio perché non ci sentivamo in obbligo di doverlo fare, c’era una nuova generazione che si affacciava sui primi traguardi, anche noi volevamo dimostrare di non essere da meno rispetto a quella che ci aveva preceduto; ma assolutamente, non ci siamo mai sentiti in obbligo di doverlo fare. Ci siamo accorti di avere l’opportunità di continuare un percorso vincente con un bellissimo obiettivo, forse proprio perché il gruppo era stato molto rinnovato. Essendo completamente nuovi, avevamo degli obiettivi diversi, uno stile diverso e cercavamo comunque di arrivare ad un obiettivo importante. Anche nella malattia io fortunatamente io questa cosa non l’ho vissuta tanto. A me lo sport ha sempre insegnato che aumentare le aspettative per se stessi o crearsi delle pressioni inutili, ti porta sempre in difficoltà, nel senso di colpa, nell’accumulo dello stress. E quindi sono d’accordo, è molto più bello vedere in un obiettivo qualcosa da poter raggiungere, da poter cercare e non qualcosa da dover raggiungere, perché questa cosa ti lascia molto più libero e di accettare con molta più lucidità i momenti di maggiore difficoltà. C’è una cosa sicura, in un percorso sportivo, in una partita, in una carriera, in una malattia: la crisi arriva. All’inizio, a metà, in più punti, ma arriva sempre. Più tu sei disposto a capire che non c’è niente di male ad andare in difficoltà, più sarai pronto a reagire nel momento in cui tu ci andrai.

Quando devi affrontare un intervento chirurgico, quando tutta la fase di terapia prevede tu sospenda o cambi in maniera decisa la tua vita, hai la sensazione che la fase successiva, una volta terminate le cure, sarà piena di incognite. C’è un concetto sbagliatissimo, che spesso viene tramandato: “devi essere capace di ripartire da zero”. Non è vero: non riparti da zero, riparti da te stesso. Tu non sei zero, non lo eri prima, non lo sei ora, dopo un percorso intenso che ti ha fatto soffrire ma anche evolvere ed imparare molte cose. Analizzando la tua storia sportiva, hai mai pensato, mentre venivi curato per il linfoma, che una volta finite le terapie saresti stato capace di andare a vincere di nuovo uno scudetto, come hai poi fatto con la maglia di Trento?

Assolutamente no. Quando uno è in un percorso di cura così difficile ed importante, in un momento così tosto della propria vita, tende a visualizzare tutta la sua vita futura come quel momento che sta vivendo. Ti sembra che quella condizione non debba mai passare, che non potrai mai tornare come prima, ma questo è anche normale: c’è un po’ di rimpianto, di malinconia. Tante volte, parlavo a me stesso in terza persona e a me faceva un po’ di tenerezza quel ragazzo. Io mi guardavo lì in quel letto, debole, magro, pelato, spaventato e mi dicevo “ma guarda te…”. Alcune volte, mi capitava di pensare a me stesso quando ero bambino, e dicevo “se quel bambino avesse dovuto sapere che doveva soffrire così…”. Ma come passano le cose belle, finiscono anche le situazioni brutte e, se tu riesci a superarle, è verissimo che tu non parti da zero, anzi! Se tu riesci a valorizzare e a guardarti indietro, mettendo da parte la rabbia, il rancore, la frustrazione che ti ha dato quel aver perso tempo e occasioni, di essere stato poco bene, hai un grande nuovo bagaglio di risorse da impiegare. Tu hai delle opportunità incredibili, hai una nuova capacità di guardarle, hai una nuova consapevolezza di te stesso, delle persone che hai vicino; nel bene e nel male, hai conosciuto i tuoi limiti e quelli degli altri, i punti di forza tuoi e di chi ti sta accanto, sai su chi puoi puntare, sai su quali parti di te devi lavorare di più e quali devi rafforzare. È chiaro che sono esperienze incredibilmente difficili e lasciano anche dietro di sé dei ricordi difficili e duri, ma secondo me non parti per niente da zero. Io credo di essermi portato fuori dalla malattia molte più cose positive, anche se sono numerose pure quelle negative. Certe volte abbiamo luoghi comuni che sono sbagliatissimi, come “bisogna imparare a perdere”. Secondo me è una frase sbagliatissima, soprattutto quando la dici ad un ragazzo, ad un bambino: è una cosa assurda da dire. Sarebbe molto meglio dire “bisogna imparare qualcosa da questa sconfitta”, che è una sfumatura che cambia completamente l’approccio mentale e ti fa portar fuori elementi che si focalizzano sulla tua evoluzione, non sulla difficoltà e sulla sconfitta. Questa me l’ha insegnata uno psicologo che lavora con me in questo momento, che si chiama Samuele Robbioni e la condivido totalmente.

Non ci sono però solo i meriti dell’evoluzione, della forza, della resistenza alle difficoltà. Spesso in oncologia si verificano anche eventi del tutto casuali e imprevedibili, per i quali non si ha merito se sono positivi, né tantomeno colpe se sono negativi. Non sempre c’è una risposta alla domanda “Perché proprio a me?”, anche se c’è sempre del lavoro sul percorso che porta a generarla. Giacomo, per l’uomo che tu sei stato nello sport, nella malattia e che sei oggi nel tuo lavoro, quanto è stata importante la casualità di nascere in un paese vicino ad una città come Ravenna, che avesse una storia pallavolistica ed un settore giovanile affermati, che ti desse le possibilità di crescere all’interno del tuo nucleo familiare senza allontanarti da casa?

Tantissimo, ne parlo sempre. Intanto, il caso di scoprire la pallavolo, perché fino a 14 anni ho sempre giocato a calcio; poi sono cresciuto tanto, venivo sempre messo in panchina, allora ho cominciato a guardarmi intorno. Ho fatto un provino per le giovanili del Ravenna volley e lì, Giuseppe Brugi che allora era il direttore generale della squadra, mi disse che io avevo un grande tocco sulla palla e lì cominciai a credere in me stesso. Credo che fosse molto importante lavorare così con una scuola ad alto livello di pallavolo a casa, perché io sono sempre stato molto legato ai miei genitori, ai miei fratelli, al luogo dove sono cresciuto, alla Romagna: lì ho avuto modo di affrontare gli alti e bassi di una sfida come quella di voler diventare un giocatore di seria A, di poter giocare in un settore giovanile di così alto livello, così competitivo, vicino alla famiglia, ai miei nonni, che mi hanno comunque fatto crescere nella tradizione, nella tranquillità. Il papà mi accompagnava sempre agli allenamenti, come anche la mia mamma, avevamo sempre modo di parlare, di confrontarci, non hanno mai interferito sui miei allenamenti, sulle decisioni dei miei allenatori, mi hanno sempre detto di portare pazienza, di cercare di essere pronto, di lavorare con impegno. In più mi hanno fatto continuare a studiare, perché a quell’età così giovane, il rischio di smettere di studiare e di impegnarmi a scuola è stato grandissimo. Invece così io ho avuto il mio diploma di liceo scientifico senza perdere anni, ho potuto farlo con impegno e comunque mi porto dietro una cultura generale che mi ha aiutato in tantissime altre cose. La persona che sono oggi indubbiamente si è formata tanto in quel periodo di adolescenza, in cui io ho vissuto pallavolo ad alto livello insieme ad una a vita sana, regolare e una vita familiare stabile.

Tu ti sei sempre allenato, giorno dopo giorno in palestra e in partita, a trasformare un gesto della ricezione in un’alzata: qualsiasi palla ti arrivasse, che fosse perfetta o che fosse la peggiore possibile, tu dovevi in qualche modo trasformarla nelle migliori possibilità per qualcuno che potesse attaccarla, qualche volta accontentandoti che la palla non cadesse a terra. Quanto è stato importante esserti allenato a questo principio, per far sì che, quando la tua vita ti ha presentato una ricezione completamente sbagliata, tu sia riuscito in qualche modo ad andare a riprenderla e a rioffrirla per il miglior attacco possibile?

Questa è una bellissima riflessione che io non avevo mai fatto. Ed è vero, adesso che ci guardo bene è stato importantissimo e credo di essere riuscito a farlo tante molte. Sono effettivamente una persona che, con tutto quello che le è capitato, di bello e di brutto, ha sempre cercato di farla diventare qualche cosa di meglio. Mi è capitato di incontrare mia moglie, una ragazza di cui mi sono innamorato e ho cercato di fare diventare tutto quanto una bella famiglia, di proiettarci in avanti, di trasformare quella bella occasione in qualcosa di più grande. Mi è capitato adesso questo lavoro nuovo, e da due anni sto cercando di lavorare con impegno, con un nuovo stile professionale. Mi è capitato il cancro, la più grande prova della mia vita e ho veramente cercato di farla diventare qualcosa di gestibile dalle persone che potessero farlo, ho cercato di rendermi disponibile. Non so nemmeno spiegarlo bene, ma è effettivamente così. Ho cercato di fare in modo che, anche quella diagnosi fosse offerta nel migliore dei modi nelle mani dei medici, degli infermieri che sapevano come potermi aiutare, di dire “ok, io fino ad adesso ho fatto questo, adesso pensateci voi, io sono a vostra disposizione: sono qua, tutto quello che mi chiedete di fare, io cercherò di farlo al meglio, però è chiaro che qua, ad attaccare e a mettere la palla per terra, dovete pensarci voi.” Io penso di avere avuto una bella predisposizione per questo ruolo, soprattutto mentale, una predisposizione di servizio agli altri, che in ogni ambito e in ogni fase della mia vita, mi ha aiutato parecchio, probabilmente in modo determinante.

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