Atleti al tuo fianco: Laurynas Grigelis

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Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà della quotidianità di chi combatte contro un tumore? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. Oggi prende parte a questa iniziativa Laurynas Grigelis, tennista lituano che vive da parecchi anni nella Bergamasca, portacolori della sua nazionale in Coppa Davis, capace di entrare nella sua carriera nella top200 della classifica mondiale a soli 20 anni.

Ciao Laurynas, benvenuto nel progetto Atleti al tuo fianco; oggi parleremo di tennis in un modo diverso dal solito, sfruttando l’aspetto sportivo per fare divulgazione oncologica, parlando delle difficoltà quotidiane di chi sta affrontando un tumore. Prima di addentrarci nella profondità dell’argomento, ti chiediamo di presentarti meglio: raccontaci qualcosa di te e della tua storia.

Ciao a tutti, mi chiamo Laurynas Grigelis ma per tutti sono Grigio; ho 26 anni e vengo dalla Lituania, sono arrivato in Italia quando avevo solo 12 anni. Sono venuto per il tennis, perché in Lituania non c’erano le situazioni ideali per allenarsi, i miei genitori dovevano quindi decidere: se avessi voluto continuare a giocare, avrei dovuto trasferirmi. Quando sono arrivato in Italia, i primi anni non sono stati molto facili perché ho lasciato tutti i miei amici in Lituania, ho trovato una nuova mentalità di vita, completamente diversa da quella cui ero abituato. Ad ambientarmi, comunque, se non ci ho messo troppo tempo è stato anche grazie al tennis, perché io dovevo giocare e basta, non dovevo pensare a nient’altro. Crescere qui, come tennista e come persona, penso mi abbia fatto diventare un po’ lituano e un po’ italiano: ho preso tanto dall’Italia perché comunque metà della mia vita l’ho passata qua, però ovviamente mi sento più lituano.

Addentriamoci nella finalità del nostro progetto: in quello che ci hai già raccontato, c’è un elemento riconducibile ad una situazione particolare di quelle famiglie che si ritrovano ad affrontare una diagnosi di cancro in un figlio in età pediatrica. Attualmente, i dati divulgati da AIRC ci dicono che in Italia oltre il 75% circa dei pazienti infantili e adolescenziali a cui viene diagnosticato un tumore, guarisce completamente. Però per affrontare le cure non sempre ci sono centri vicini a dove si risiede, spesso succede che uno dei due genitori lascia la casa con il figlio per recarsi nella sede che garantisce le terapie mentre l’altro genitore prosegue a lavorare e a seguire il resto della famiglia.
Nel mio ambito, prettamente sportivo, ho vissuto una situazione simile: mio papà era rimasto in Lituania a lavorare, perciò io il primo anno l’ho passato qui con la mamma. perché non potevamo lasciare tutto per trasferirci completamente qui senza alcuna certezza.

Ti faccio una domanda un po’ difficile, ma che ci porta ad approfondire una dinamica, esistente soprattutto negli adolescenti che vivono un cancro, che è importante sapere per aiutarli a riappacificarsi: la sensazione di essere responsabili del cambiamento della stabilità familiare, arrivando a colpevolizzarsi per la malattia e per l’eventuale durata delle terapie. Tu hai mai sentito dentro di te la sensazione di responsabilità di star mettendo a rischio le certezze della tua famiglia, legate soprattutto ai risultati che contemporaneamente stavi mostrando di raccogliere sul campo?
Sì, non quando ero piccolo, posso dire che fino a 18 anni forse non mi sono reso conto fino in fondo di quello che tu stai dicendo ora. Quando ho iniziato ad essere più grande, a dire la verità ci ho pensato molto. Non è che mi senta in colpa per questo, però dentro di me, mi piacerebbe tanto diventare forte, guadagnare di più con i successi sportivi per ricompensare gli sforzi che hanno fatto i miei genitori per me, che hanno cambiato la loro vita per offrirmi un’opportunità. Non so se è giusto dire “in debito”, però sento che devo qualcosa a loro perché hanno fatto questa scelta, perché hanno creato questa occasione perché io potessi e possa inseguire il mio sogno.

Ci sono tre elementi che affronta ogni famiglia che entra in un percorso oncologico: la speranza, la certezza e l’illusione. Sono tre elementi molto diversi ma che non è sempre facile riuscire a distinguere nelle emozioni convulse di momenti delicati: saperli riconoscere, anche nella loro coesistenza, è fondamentale per mantenere la guida di noi stessi nella realtà e nelle emozioni cui essa può condurre. Nella tua vita sportiva, quando hai avuto la certezza che la tua speranza di diventare tennista non fosse un’illusione?
Sono interessanti queste sfumature; è stato quando ho iniziato a giocare in tornei professionistici, quando ho trovato una squadra che lavorava con me e per me, quando ho trovato degli sponsor. Lì ho capito che avevo una chance per provare ad essere un tennista perché il tennis è uno sport che ha una determinata soglia sopra la quale puoi guadagnare molto, ma sotto la quale è molto costoso e ti manda inevitabilmente in perdita. Prima di tutto questo, quando mi facevano andare in giro i miei genitori, facevo 10 tornei all’anno circa, tutti vicini, si cercava sempre di risparmiare, magari certe volte non si pranzava e si cenava soltanto. Poi con i primi risultati importanti, quando ho trovato la gente che mi seguiva, uno sponsor, ho capito che c’era qualcuno che credeva in me come tennista, che pensava che io potessi fare del tennis il mio lavoro e la mia vita. Non era più solo la speranza mia e della mia famiglia, qualcuno stava rendendo certezza quello che in certi momenti poteva sembrare un’illusione.

Un obiettivo fondamentale, quando ci si relaziona con le famiglie nella psico-oncologica, è impedire alle emozioni di dominarti e di annientarti. È facile illudersi di fronte ai primi segnali positivi, è altrettanto facile crollare di fronte ad eventuali peggioramenti; il raggiungimento del traguardo della guarigione è però composto da un percorso molto lungo, fatto di miglioramenti e elementi negativi: per questo è fondamentale mantenere l’orientamento emotivo verso un obiettivo più lontano per raggiungere il quale è necessario continuare a camminare. Guardando la tua carriera, tu hai raggiunto il tuo best ranking 4-5 anni fa, ti sei avvicinato ad entrare nei tabelloni dei grandi slam, dopodiché la tua classifica è scesa e hai fatto molti tornei del circuito Challenger e Futures. Come convivi con le tue emozioni riguardo all’idea che, hai sfiorato una situazione importante dalla quale ora sei più lontano ma che magari ti aspetta tra due anni, senza però avere certezza di questo?
Devo ammettere che sono sceso in classifica proprio per le emozioni, le pressioni che sono venute non solo dall’esterno ma soprattutto anche da parte mia. Ho visto che posso fare bene, che posso vincere; quando ho raggiunto una certa classifica, ho visto la gente che battevo, ho visto i tornei che vincevo, mi mettevo anche tanta pressione da solo, perché ho visto che l’obiettivo del tabellone principale degli Slam era lì vicino e che in qualche modo, dovevo vincere quelle partite che mi ci separavano, come un dovere. Così facendo però io penso di aver perso l’obiettivo su di me, ho focalizzato tutto sui risultati, ma nel tennis non funziona così perché, se non ti migliori, se l’obiettivo non sei tu, non vinci le partite. Perciò mi sono messo tanta pressione, non avevo un’esperienza che, probabilmente, ho adesso, e se potessi tornare indietro, l’avrei gestita in un altro modo. È stato difficile, soprattutto quando inizi a perdere delle perdere delle partite consecutivamente, vedi che ti stai allontanando piano piano dal traguardo cui eri vicino, penso che quello sia il momento più complesso. Sembra incredibile,ma il peggior anno che ho avuto nella mia carriera è stato il 2012, quando ho raggiunto la mia classifica migliore. Quando sono riuscito ad accettare che le cose stavano andando male perché io non ero più l’obiettivo del mio percorso, ho cominciato a risalire; però sono stato 4-5 mesi a darmi colpa, a mettermi sempre più pressione, a dirmi sempre”come fai a sbagliare, a perdere certe partite?”. Quando sta andando tutto male, tu vedi spesso in negativo anche ciò che negativo non è; uscire da questo condizionamento non è assolutamente facile, ma è necessario per ripartire, per ricostruire, per tornare ad essere tu un elemento decisivo in ciò che stai vivendo.
E così ho cominciato a risalire: mi sono focalizzato molto su di me, sul mio gioco, su come devo servire, su come devo giocare determinati punti, sono riuscito a dimenticare completamente il risultato finale: mentalmente, cercavo di fare la migliore cosa che potessi fare io in quel momento. Ho visto che le cose migliorare e questo comunque ti dà forza, e su questa strada sto continuando il mio percorso.

Vuoi salutare chi ti sta leggendo?

Sì, vorrei solo dire che nessuno di noi può davvero sapere quale sia il fondo di una persona, e che alcune volte quando pensi di non avere più chance, è proprio in quel momento che devi farti trovare pronto se ti si presenta un’occasione che non si poteva prevedere. Auguro a tutti di trovare sempre dentro di sé la speranza e la volontà di crederci, per poter sfruttare anche le occasioni meno prevedibili per raggiungere il grande obiettivo finale della guarigione.

Grazie Grigio, hai donato una parte molto profonda di te e della tua storia per questa iniziativa, questo fa di te realmente un Atleta al fianco di chi sta combattendo contro il cancro, con le tue parole, i tuoi gesti e le tue sfide.


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