Atleti al tuo fianco: Massimo Ambrosini

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Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psiconcologia, e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Entra a far parte di questa speciale squadra Massimo Ambrosini, storico capitano del Milan con cui ha vinto 11 trofei, tra i quali quattro scudetti e due Champions League, e cronista sportivo per Sky Sport.

Ciao Massimo, benvenuto nella squadra di Atleti al tuo fianco. La tua gloriosa storia sportiva sarà spunto per raccontare aspetti della vita quotidiana di chi sta affrontando un tumore maligno. Racconteremo punti di vista, emozioni, difficoltà, reazioni. Tu sei molto conosciuto per il tuo passato da calciatore e presente da opinionista, raccontaci una caratteristica di Massimo Ambrosini uomo, che non riguardi il calcio ma la tua vita di ogni giorno fuori dal lavoro.

Per me è sempre stato importante cercare di trasmettere alle persone che, anche se ho sempre fatto un lavoro particolare, sono una persona che conduce una vita normale. La televisione e lo stadio spesso ci fanno sembrare persone fuori dal comune, eppure io sono cresciuto in una famiglia semplice che mi ha trasferito i valori della normalità. Adesso che sono padre, cerco di fare lo stesso con i miei figli; è importante far comprendere loro che senza dubbio sono e siamo fortunati, perché ci possiamo permettere alcuni agi, ma al tempo stesso è fondamentale condividere esperienze quotidiane comuni, come andare al parco. Sono papà di una bambina di sei anni e di un bimbo di nove, cercare di trasmetter loro il valore della normalità è una condizione che mi fa stare bene, per quello che io ho ricevuto e che vorrei anche loro facessero proprio.

Tra le capacità che la psiconcologia deve trasmettere ai pazienti vi è quella di dominare i momenti di squilibrio emotivo. Per esempio, per un paziente e per i suoi familiari è molto difficile dover affrontare un prolungamento delle terapie: si pensava di aver raggiungo un traguardo, invece lo si deve rimettere in discussione. Nel calcio, come si ricomincia in una nuova stagione il percorso verso un obiettivo dopo una cocente delusione, come ad esempio la finale di Istanbul nella quale il Milan perse la Champions League dopo essere andato in vantaggio per 3-0?

Nel caso specifico, in ambito sportivo non puoi pensare personalmente di cancellare quello che hai fatto. Devi prendere coscienza di quello che è successo e devi trovare le motivazioni per pensare che sia possibile andare avanti ed arrivare dove non sei riuscito ad arrivare precedentemente. Devi fare, secondo me, un lavoro molto personale. Io ho sempre pensato che devi concedere alla tua mente di avere un attimo di debolezza, perché è inumano pensare che tu vada sempre con la mente propositiva e pronta, ma devi anche essere consapevole che non puoi permetterti di mollare. Secondo me è una concessione attraverso la quale tu puoi trovare la forza di ripartire. Io ho avuto molti di questi momenti legati anche alla mia condizione fisica, perché ho avuto una miriade di infortuni che hanno condizionato molto la mia carriera. Questo mi ha costretto molte volte a fermarmi e a rifermarmi, mi trovavo in un allenamento specifico in cui pensavo di aver risolto un problema muscolare e al primo scatto mi faceva male. E quindi, il rientro nello spogliatoio era intriso dell’amarezza della sconfitta, della debolezza. Ed io mi sono sempre rialzato all’interno di grandi sofferenze. Se non fossi passato attraverso le difficoltà, il mio corpo non sarebbe riuscito a ricaricarsi. Mi è stato trasferito da dei genitori estremamente determinati, in particolar modo mia madre, il fatto che la forza per riemergere dalle difficoltà dovesse provenire da dentro di te: giusto raccogliere aiuti, da amici, parenti, tutori, ma la forza principale dovevi averla tu. Non sminuisce quello che possono fare gli altri, ma prendi coscienza che, se vuoi, hai la forza dentro di te per farlo e che puoi contare prima di tutto su di te. Questo mi ha aiutato tanto.

Un tumore colpisce emotivamente un’intera famiglia, non solo chi ha ricevuto la diagnosi: tutte le persone che compongono il nucleo familiare vengono coinvolte in un vortice di emozioni e pensieri molto diversi. Alcune volte, i parenti della persona ammalata si sentono in colpa per percepire in prima persona le difficoltà e le paure, ritenendosi non sufficientemente di supporto alla persona cara. La soluzione sta nel cogliere che ognuno ha le proprie emozioni e ognuno ha le proprie risorse per essere d’aiuto, in un modo del tutto personale, mai stereotipato. È stato per te facile comprendere che potessi valorizzare delle caratteristiche calcistiche particolari completamente diverse da altri giocatori con cui giocavi a centrocampo, come per esempio con Andrea Pirlo?

Io ho preso coscienza di quali fossero le mie caratteristiche da subito, anche se durante le giovanili ero un giocatore completamente diverso da quello che sono diventato poi. Da professionista io ho preso coscienza che, affinché rendessi al massimo, avrei dovuto avere uno stato fisico e mentale sempre ottimale, perché non avevo le qualità di altri centrocampisti al mio fianco. Per me è sempre stato un obbligo riuscire a star bene e avere una cura massima per il mio corpo e per la mia condizione fisica, perché non possedevo le qualità tecniche mi avrebbero permesso di reggere un certo tipo di livello. Ho semplicemente cercato di ottimizzare quello che Madre Natura mi aveva dato. Facevo tutto questo tramite l’allenamento, non avevo altri mezzi. Il buon Dio non ci ha fatto tutti uguali, ci ha dato caratteristiche e qualità diverse, poi ognuno le gestisce come crede. Quindi per me è venuto naturale riuscire ad integrarmi con giocatori con caratteristiche molto diverse dalle mie, così come era normale richiedere al mio modo di giocare certi compiti e indicarne altri per i compagni vicino a me. E valorizzando le proprie caratteristiche individuali, si costruiscono coppie complementari e stabili.

La stabilità è una situazione che viene spesso messa in discussione dalle difficoltà che si vivono giorno dopo giorno, soprattutto mentre si viene sottoposti alle terapie. In alcuni momenti si può addirittura provare una sensazione di totale disorientamento, come se si avesse smarrito la direzione della propria vita. È fondamentale riposizionare i piedi e la mente in una direzione di marcia ben precisa, per dare un senso alle difficoltà e al tentativo di superarle. Nella tua storia di calciatore, c’è mai stato un momento in cui tu ti sia sentito totalmente disorientato, senza una concreta direzione?

Io ho avuto un periodo della mia carriera e della mia vita in generale dove, a causa del mio stato fisico, ho perso fiducia nel mio corpo e ho dovuto anche ricorrere all’aiuto di professionisti per cercare di districare i pensieri che la mia mente generava. Ero un ragazzo già maturo perché avevo quasi 30 anni e, essendoci delle situazioni da sistemare nella mia vita privata, il mio corpo reagiva in maniera non consona, offrendo infortuni e uno stato di malessere continuo. Se da calciatore perdi fiducia nel tuo corpo, allora ti ritrovi disorientato. Lì ho avuto la fortuna di avere dei compagni e un allenatore che, in quel momento, mi sono stati vicini. La chiamata di un allenatore o una frase di un compagno in un determinato momento, funge da interruttore che ti riaccende la luce. A me è successo così e, piano piano, ho ricominciato a prendere fiducia nelle cose, a lottare per ritrovare una condizione di un certo tipo. Ne sono venuto fuori, sempre però pensando che la forza iniziale dovesse essere la mia. Sei sempre tu l’artefice, ma in un certo momento, è accettabile che ci sia qualcosa o qualcuno che ti aiuti a riaccendere la luce. Lui ti aiuta, sei tu che devi però continuare ad alimentare l’illuminazione.

Il rapporto medico/paziente deve costruirsi incentrato sulla reciproca fiducia. Quando in questa relazione si insinua il dubbio, le parole del medico perdono di credibilità agli occhi del paziente, che rischia di rifugiarsi in persone che dispensano consigli senza alcun titolo medico o in ricerche personali sul web che lo portano a seguire consigli del tutto lontani da basi scientifiche. Per questo è fondamentale curare ogni dettaglio di comunicazione fra i dottori, i pazienti e le loro famiglie, ponendo le basi sulla verità e sull’ascolto. Tu di comunicazione ti occupi in prima persona, in quanto cronista di Sky Sport: quanto è importante per te riconoscere l’oggettività della realtà per guadagnarti la credibilità di chi ti identifica ancora con i colori della maglia della tua storia calcistica?

È un discorso un po’ ampio questo. In comunicazione, conta il contenuto di quello che proponi e allo stesso modo conta la modalità in cui lo proponi: devi essere consapevole che il modo in cui tu lo esponi deve essere convincente, perché devi trasferire un concetto che per te è chiaro a delle persone che lo ascoltano per la prima volta. Io ho giocato vent’anni nel Milan, ma devo fare l’opinionista sul calcio in generale e devo cercare di smarcarmi dall’identificazione come ex giocatore rossonero, perché in questo momento sono “uno che parla di calcio”, non “un ex giocatore del Milan che parla di calcio”. Molte volte, nel mio tentativo di essere imparziale ed oggettivo, sono stato tacciato di essere quello che andava contro il Milan perché qualche tifoso rossonero si aspettava che io fossi quello che non parlava mai male del Milan. Per quanto riguarda i medici, io ho avuto un’esperienza personale in famiglia, un problema che sembrava grave. Ricordo le parole di questo medico che aveva coinvolto la famiglia, erano state dure nel momento della diagnosi, ma erano state apprezzate dalla mia famiglia perché poi non avevano creato false speranze. Nella crudezza, era stato realista, oggettivo, senza creare allarmismo. Sono assolutamente d’accordo che la comunicazione sia fondamentale nel rapporto medico/paziente e ho sempre preferito che un medico si rivolgesse a me con realismo, perché è sulla realtà che dobbiamo basare la nostra emozione e reazione. Anche nel calcio, se ci pensiamo bene, non è molto diverso da così.

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