Parlare di lotta al cancro dialogando con sportivi professionisti riguardo alle loro sfide quotidiane sui campi e in palestra: questa la sfida coraggiosa lanciata dal progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. L’atleta che oggi scende in campo in questa iniziativa è Matteo Soragna, cestista della Pallacanestro Piacentina, campione d’Italia con la maglia di Treviso, bronzo con la nazionale italiana agli Europei 2003 e argento alle olimpiadi di Atene 2004.
Ciao Matteo, benvenuto nel progetto “Atleti al tuo fianco”, oggi con questa intervista parleremo di basket ma anche di tumori, creando spunti di riflessione partendo da come tu hai vissuto e vivi la tua vita da cestista professionista. Per entrare nel clima migliore per affrontare questa sfida, ti chiedo prima di tutto di presentarti ai nostri lettori senza però mai parlare di basket. Chi sei tu Matteo al di fuori di tutto ciò che riguarda il tuo lavoro?
Ciao a tutti, mi chiamo Matteo Soragna e ho 41 anni. A questo punto della mia vita posso considerarmi un family man, nel senso che mi piace molto condividere tempo con mia moglie e mia figlia; grazie alla professione che faccio ho più tempo libero di un lavoratore normale e quindi cerco di sfruttare l’occasione per poterlo passare con le persone che amo, questo mi gratifica molto. Sono un dinosauro tecnologico, nel senso che non sono una persona propriamente avvezza alle novità del settore hi-tech però mi piace essere presente in qualche social perché lo uso come un modo per poter ridere. Amo guardare spettacoli comici in televisione, leggere libri di narrativa e romanzi con risvolti divertenti, perché trovo che la risata dovrebbe essere parte fondamentale della vita di ognuno di noi. Questa penso possa essere una discreta sintesi di me al di fuori dai campi da basket.
La conoscenza di se stessi è un elemento basilare anche della psico-oncologia, ci si concentra sulla singola persona e sul singolo percorso in maniera approfondita per aiutare ognuno ad individuare i propri profondi pregi per poterne attingere come risorse indispensabili in un percorso impegnativo quale la lotta contro un tumore. Nella tua esperienza da cestista, quali sono state secondo te le tue caratteristiche peculiari che ti hanno permesso di diventare un top player nel basket rispetto ad altre persone molto brave che avevi intorno a te?
La cosa che più mi premeva e più mi preme tuttora è essere un giocatore di squadra, cioè essere un giocatore che stia bene con i propri compagni e con cui i compagni stiano bene, quindi l’armonia al livello del campo è fondamentale, che non vuol dire andare d’accordo, andare a mangiare la pizza tutti assieme, vuol dire fare le cose che facciano felici i miei compagni di squadra. Quindi mi è sempre piaciuto molto difendere, passare la palla, e poi ovviamente nei momenti topici prendersi la responsabilità in attacco quando la partita si deve decidere, cercare di essere un punto di riferimento per i tuoi compagni, però la condivisione è stata la caratteristica principale della mia carriera.
E quanto è stato importante per te poter contare su qualcuno al tuo fianco che potesse sopperire ad alcune caratteristiche tue che non sentivi così forti come quelle che mi hai elencato adesso?
Mah, sai, i componenti di ogni squadra devono incastrarsi, c’è quello che è molto più bravo in attacco, quello in alcune fasi del gioco ed è normale che le mie caratteristiche si debbano sposare con quelle di chi gioca con me, quindi quando giocavo con qualcuno molto forte in attacco ero molto felice perché sapevo che quella sua caratteristica era funzionale alla squadra, come speravo lui capisse lo fossero le mie peculiarità, se c’era questa alchimia vuol dire che la squadra funzionava.
Con te vorrei analizzare un tema con cui una persona che affronta un tumore è costretto a confrontarsi, la paura, che compare già quando tu ricevi la diagnosi: ti dicono la parola tumore e il primo pensiero che la paura cerca di indurti è “cavoli, morirò”. La reazione è umana e comprensibile, ma la paura non si deve permettere di condizionare ogni secondo della quotidianità e della vita da quel momento in avanti, ancor più che attualmente in Italia il 70% dei pazienti a cui viene diagnosticato il cancro, arriva a guarigione. Tu hai scritto pagine di storia di una società cestistica come Biella, e avete realizzato qualcosa di particolare insieme andando in serie A1 e improvvisamente dovevate affrontare grandissimi nomi, sia come avversari sia come società, che rischiavano di crearvi timore già solo come nome di sfida che vi attendeva. Come hai affrontato tu quella situazione in cui dovevi essere prestazionale nonostante potessi avere la paura di una sfida contro un avversario molto forte?
Mi fa molto effetto accostare questi due tipi di paure: la nostra è sì una professione ma anche un gioco, quindi la paura è contestualizzata ad un ambito per certi aspetti ludico, non è una paura assoluta. Per quel che riguarda la mia situazione sportiva, i primi confronti con la paura li ho avuti da piccolino, quando giocavo mi mettevo a piangere, poi quando sono cresciuto un po’ mi ricordo che avessi paura di affrontare quelli più forti di me, poi come dicevi tu arrivando in serie A ero comunque sportivamente intimorito di confrontarmi con chi avesse già avuto una carriera gloriosa e avesse sollevato trofei, in club e in Nazionale. Con l’aiuto dei miei compagni, allenatore e società e al tempo stesso con la reazione primariamente mia, perché senza la reazione individuale gli aiuti di chi ti sta intorno non si tramutano in miglioramento, ho e abbiamo vinto questa sensazione di timore. Una frase che mi piace sempre ricordare è “non c’è coraggio se non c’è paura”, quindi anche se le paure generano reazioni molto sgradevoli e difficili da gestire, imparando proprio ad affrontarle si crea l’opportunità per migliorare, crescere e imparare a reagire.
La difficoltà maggiore sta nel riuscire a porre un confine invalicabile alla paura, perché se ti invade la testa condiziona in maniera pesante ogni azione della tua quotidianità, anche completamente slegata dalla malattia. È come se ti facesse tremare la mano prima di ogni tiro a canestro. In che modo tu da cestista gestisci la tensione quando devi effettuare un tiro da tre punti importante dopo magari averne già sbagliati tre consecutivi all’interno della stessa partita?
Ci sono momenti di una partita o di un’azione d’attacco in cui si gioca per prendersi un tiro da tre, e se in quel momento tocca a te lo devi fare, a prescindere dalle circostanze precedenti; la squadra lavora per costruire tiri buoni, e al di là della finalizzazione, il tiro ben costruito deve essere sempre effettuato. Poi chiaramente, il peso della responsabilità resta una condizione che con il passare del tempo e delle partite, una persona impara a gestire in maniera migliore, senza dubbio. Per quel che riguarda me, ad esempio, è certamente stato un percorso perché all’inizio della mia carriera ero un giocatore che preferiva non prendersi il tiro più importante, mentre invece crescendo ho acquistato fiducia, perché ho acquisito consapevolezza, credo proprio che l’elemento in più sia quello. Diventi maturo non perché invecchi, ma perché tappa dopo tappa acquisisci consapevolezza dei tuoi limiti ma anche dei tuoi mezzi, cognizione delle occasioni e dei doveri, anche nello sport è così. È attraverso questi passaggi che diventi un giocatore migliore: non è che in quel modo non hai poi paura delle circostanze determinanti, semplicemente capisci che ad ogni modo sono situazioni che devi incontrare, e verso le quali la paura è solo un elemento peggiorativo della condizione con la quale vai ad affrontarle.
Ciò che caratterizza i percorsi di terapia sono spesso flussi di periodi positivi, nei quali il paziente sta relativamente bene rispetto alle attese, e flussi negativi, in cui la quotidianità diventa di difficile sopportazione e si palesa un pensiero pericolosissimo, che porta a credere che stare male voglia dire star percorrendo una strada che allontana dall’obiettivo della guarigione. Nel 2004 tu hai partecipato alle Olimpiadi di Atene, vincendo la medaglia d’argento. Nella semifinale contro la Lituania, la partita ha subito una svolta decisiva quando è stato effettuato un parziale di 21-0 a favore dell’Italia. Eppure nel basket si possono avere anche parziali molto positivi e poi perdere la partita, subire parziali impietosi e poi vincere la partita. Come si mantiene la mente lucida orientata verso l’obiettivo finale nel momento in cui si subisce un parziale dagli avversari e alla tua squadra non entra un canestro?
Spesso i parziali scaturiscono da due semplici azioni consecutive, che danno una fiducia inaspettata ad una squadra mentre contemporaneamente la squadra avversaria la perde, si crea cioè un gap che è il presupposto perché il parziale possa proseguire ingigantendosi. Quando succede a tuo vantaggio, ti fai trasportare positivamente da quanto sta succedendo, sia con i compagni sia con il pubblico, perché improvvisamente ti sembra tutto facile da affrontare e concretizzare. È quando lo subisci che invece diventa pericoloso, perché bisogna essere molto molto veloci per capire che l’obiettivo non è per forza segnare subito un canestro, ma ridurre il gap, far sì che non si amplii troppo: a volte è sufficiente creare tre azioni di difesa intensa e solida, che obbliga gli avversari a prendere tiri difficili per ridurre questa distanza, l’occasione per fare il canestro tu con la tua squadra ti si presenta senza dubbio comunque, ma è la distanza tra gli stati d’animo che non si deve ampliare troppo. Tutto questo dipende anche da tutto ciò che ti circonda, l’allenatore, dalla personalità dei compagni e della squadra, dal sostegno dei tifosi e, ancora una volta, dalla consapevolezza che in questo sport i parziali esistono e esisteranno sempre, a favore e a sfavore, è necessario ricordarselo per non farsi trovare sorprendentemente al tappeto alla prima serie negativa.
Grazie Matteo per la tua testimonianza, ci hai guidati in maniera profonda e sapiente in profondità nell’analisi di alcune tematiche del basket che possono aprire varchi di ispirazione a chi legge questa rubrica. Tu da oggi sei un atleta al fianco di chi combatte ogni giorno un avversario chiamato cancro, è una medaglia ideale di cui ci auguriamo tu possa andare fiero.