Atleti al tuo fianco: Simone Giazzoli

Di Permalink 0

Parlare di lotta al cancro conversando con sportivi professionisti delle loro difficoltà e abitudini quotidiane, permettendo loro di avvicinarsi e sostenere chi sta combattendo contro un tumore: questa è la scommessa che lancia il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. Partecipa a questa sfida Simone Giazzoli, ex pallavolista che nel corso della sua carriera ha giocato 248 partite in serie A con la maglia di Montichiari (prima Eurostyle, poi Gabeca), vincendo le due storiche Coppe delle coppe nel 1991 e 1992; con la maglia della Nazionale Italiana invece contribuì alle vittorie della World League del 1991, 1992 e 1995.

Simone, prima di tutto grazie per aver accettato il nostro invito. La prima domanda di queste interviste è sempre la medesima e permette ai nostri partecipanti di potersi presentare prima di tutto come persone: chi è Simone Giazzoli in tutto ciò che non è la pallavolo?

Da quando ho finito la mia carriera di giocatore, ho lasciato il mondo della pallavolo e conduco una vita lontana dai campi da volley: ho un lavoro in cui mi occupo di commercio di autogru con l’estero, ho una famiglia con cui mi piace spendere quasi tutto il mio tempo libero e come attività per tenermi in forma, il mio sport è diventato il tennis. Il commercio è un ambito che mi ha sempre suscitato interesse: già quando ero giocatore avevo superato l’esame di promoter finanziario, anche perché nel mondo della pallavolo è importante incominciare pensare al proprio futuro prima che termini la carriera agonistica. Mi piacerebbe aver fatto l’università, ma a 18-19 anni mi stavo affacciando al mondo del professionismo sportivo e mi sono gettato in quello non continuando gli studi.”

Parlando di famiglia, un tumore non è mai una malattia individuale, ma coinvolge sempre tutto un intero nucleo familiare. Uno dei cardini che la psico-oncologia offre è il corredo di strumenti necessario alla famiglia per affrontare emotivamente il percorso, sfuggendo alla sensazione di sentirsi impotente e inadatta di fronte all’evolversi degli eventi. Molto spesso infatti in un parente di un malato di cancro esplode la sensazione di non avere tutte le caratteristiche che lui stesso ritiene indispensabili per supportare il proprio parente malato, focalizzandosi sulle mancanze e perdendo invece di vista i propri punti di forza da poter offrire a tutta la famiglia. Tu che hai vissuto lo sport di squadra, sei riuscito a tenere distanti da te le paure di ciò in cui non ti sentivi all’altezza e ad offrire agli altri tutto quello per cui la tua squadra contava su di te?

Quando giocavo, il soprannome che i miei compagni mi avevano affibbiato era “Iceman”, perché dicevano che in campo io ero sempre freddo come un uomo di ghiaccio; effettivamente sapevo che la capacità di non farmi distrarre da tante situazioni intorno a me fosse la caratteristica migliore che io potessi dare a tutta la squadra, soprattutto a chi magari faticava a contenere le emozioni e mantenere la concentrazione nei momenti determinanti. Nel mio ruolo di schiacciatore ricevitore la freddezza è una dote che è sempre stata molto utile; la difficoltà era semmai trasformare questa freddezza in ricezione in un’esplosione immediata per offrire un’alternativa ulteriore per l’attacco, e magari questo non mi riusciva in maniera altrettanto efficace. Però sentirsi appartenenti ad una squadra è il bello di queste situazioni: per esempio, io ho giocato con Raul Quiroga, campione argentino, e sapevo che se io avessi fatto bene il mio compito di ricettore, poi la palla era più probabile potesse finire al suo braccio straordinario per toccare terra; ecco, questo mi regalava tranquillità ulteriore, sia nelle mie certezze sia nelle mie carenze. In tutto questo spirito di squadra abbiamo sviluppato la compattezza necessaria per tagliare grandi traguardi: ognuno faceva il proprio compito al servizio dei compagni, nessuno eccelleva in tutto ma tutti spiccavano in qualcosa; senza questo spirito di gruppo non saremmo arrivati molto lontani.”

Chi vive ricoveri frequenti per sottoporsi ad esami e terapie, spesso afferma che instaurare un rapporto di fiducia e vicinanza con l’équipe medico-infermieristica che ciclicamente si rincontra aiuta ad arginare la difficoltà del distacco da casa, poiché vedere volti noti che collaborano e si prendono cura di te aiuta a sentirsi sostenuti. Quanto ti ha aiutato nella tua carriera giocare per undici anni consecutivi con la stessa maglia, facendo di una realtà sportiva come la Gabeca Montichiari una tua seconda casa?

Se ci penso adesso, ci sono stati molti aspetti positivi: vivere sempre con le stesse persone aiuta a prendere confidenza con tante difficoltà; dall’altra parte, forse se avessi viaggiato di più avrei avuto un arricchimento umano che si conosce solo facendo esperienze nuove in posti diversi. Certo, conoscere le facce che ti circondano, avere sempre la stessa palestra, conoscere le dinamiche societarie aiuta ad affrontare i momenti sportivamente più delicati, e per me questo ha contato molto. In particolare devo dire che è stato molto importante vivere la realtà di un paese come Montichiari, in cui percepivamo che tutta la cittadinanza facesse il tifo per noi. La pallavolo era lo sport principale e tutti ci amavano incondizionatamente. Aver avuto questi punti di riferimento nella mia carriera è stato un elemento molto utile per permettermi di esprimermi al meglio.”

C’è una situazione particolare che si vive frequentemente in oncologia: quando una persona attende l’esito di una biopsia o di un esame strumentale, affronta l’enorme difficoltà di dover imparare a gestire delle emozioni che si fanno sentire in maniera impetuosa, prima fra tutte la paura, e che rischiano di condizionare in maniera pesantemente negativa la lucidità emotiva. Nella pallavolo c’è un momento in cui l’atleta deve rimanere lucido su quello che sta per succedere, senza farsi distrarre o tendere dalle emozioni di un’attesa: è il momento in cui ci si prepara a ricevere un servizio per offrirlo all’alzatore. Tu da pallavolista come ti preparavi in quei secondi che separavano il fischio dell’arbitro dalla battuta di un avversario con un servizio particolarmente difficile da affrontare?

Io ero quello che organizzava tutta la ricezione e ho sempre trovato l’allenamento l’elemento più importante per affrontare una situazione come quella che mi hai proposto. Se sei ben allenato, sai prenderti la responsabilità di una grossa fetta di campo in cui andare a ricevere la palla del battitore, e questo a me succedeva spesso. La mente è un alleato solo se tu la alleni, altrimenti anche la concentrazione può essere difficile da raggiungere; a maggior ragione, oltre che allenare la mia mente ho sempre trovato utile studiare il mio avversario, capire prima in quali modi abitualmente battesse. Se tu impari a conoscere il tuo avversario, quando si realizza una cosa che hai previsto puoi trasformare la difesa in opportunità di contrattacco”

E come si reagisce quando questo avversario su cui sei preparato, si dimostra molto forte e mette a terra due battute vincenti consecutive e tu sei chiamato a ricevere la terza opportunità?

Lì c’è un discorso mentale di riscatto, di sfida diretta all’avversario: mi hai fregato due volte tu, devo mostrarti di che pasta sono fatto io. La pallavolo è un gioco di squadra e se tu non riesci a mettere bene la ricezione per il tuo alzatore, diventa molto più difficile fare punto e strappare il servizio all’avversario. Alcune volte però è necessario capire che non è indispensabile mettere la palla perfetta sulle mani dell’alzatore ma magari evitare che l’avversario realizzi un ulteriore ace, difendere la palla alzandola in mezzo al campo e ripartire da una buona alzata e vivere la squadra affidando il compito di concretizzare il punto in quel momento a chi riveste il ruolo di opposto. Per esempio Ljubo Ganev era un avversario di cui era impossibile prevedere la direzione del servizio, arrivavano semplicemente dei siluri a duecento chilometri orari su cui era semplicemente importante difendersi, giocando di squadra e lasciando al passaggio successivo dell’azione il compito di trasformarsi in fase di concretizzazione.”

Alcune volte certe persone si trovano a vivere una diagnosi di cancro severa fin dall’inizio, che li obbliga a dover combattere contro la statistica per vincere la propria sfida; il pronostico, basato in realtà sulla storia di altre persone, rischia di condizionare negativamente l’evoluzione degli eventi sotto il profilo psico-emotivo e clinico, allontanando dall’obiettivo finale della guarigione. Tu, con la Gabeca Montichiari, nel 1992 giocasti una sfida molto particolare: nella finale di Coppa delle Coppe incontraste la Mediolanum Milano, squadra costruita con i migliori giocatori al mondo in quel momento in ogni ruolo, con un sestetto stellare con pallavolisti del livello di Andrea Zorzi, Claudio Galli, Andrea Lucchetta, Jeff Stork, Franco Bertoli e Robert Ctvrtlik. Credo che prima della sfida, il pronostico fosse univocamente favorevole a Milano, voi invece vinceste quella sfida e sollevaste la coppa. Ci racconti come si costruisce l’impresa di sconfiggere un avversario ritenuto imbattibile?

Quella situazione non era nuova per noi, già altre volte avevamo dovuto affrontare squadre più forti di noi sulla carta. Se in quelle sfide le probabilità di farcela erano poche, le alternative erano due: o si entrava in campo con la testa convinta di partire già sconfitti, e quindi sicuramente avremmo perso, o si sarebbe dovuto cercare di giocarci fino in fondo quelle poche possibilità, dando tutto il nostro meglio. In quel preciso frangente rimanemmo concentrati in ogni punto sulla possibilità di fare bene, riuscendo punto dopo punto a ridurre la distanza tecnica fra noi e loro, portando il tutto al tie-break decisivo; in una finale, quando arrivi in un momento tanto decisivo, i valori tecnici prestabiliti contano fino ad un certo punto. Ricordo che sul 16-16, palla decisiva perché allora non c’era la regola del doppio punto di distacco, al massimo si arrivava a 17, mi trovai io a battere; cercai in ogni modo di servire una palla difficile, e mi partì dalle mani un servizio che rivedendo poi le immagini forse sarebbe finito fuori, ma fu abbastanza complicato da non venire letto come lungo e ciò mise in difficoltà la ricezione di Milano, che non mettendo a terra il successivo attacco ci permise di contrattaccare con un mani-fuori che ci consegnò la coppa. Se vivi la sfida convinto di perdere, hai già perso in partenza.”

Comments are closed.